“Una fila ordinatissima e lunga, almeno una ventina di minuti per entrare: tutti seri, silenti e fieri. Ho preso un pezzo di pizza e 5 kg di pane. Non l’ho ritirato e l’ho pagato, una nuova forma di protesta. È per i partigiani a San Marco, ho detto di fronte allo stupore per la quantità”. Queste e altre piccole storie vengono da sabato 26 aprile ad Ascoli Piceno, a piazza Arringo, e il motivo lo conoscono tutti ormai – e in tutta Italia- ma riassumo per i pochi che ancora non hanno aperto un giornale o i social (e per chi leggerà, magari in futuro).
Tutto parte da uno striscione, con una frase semplice e chiara: “25 aprile, buono come il pane, bello come l’antifascismo”. Era appeso davanti al forno L’assalto ai forni. Ed era il modo di Lorenza Roiati, titolare del panificio, di celebrare gli 80 anni dalla Liberazione, come fa ogni anno: con parole che ricordino a tutti da dove veniamo e quale strada dobbiamo continuare a percorrere.
Nella mattinata, però, succede qualcosa. Prima una volante della Polizia di Stato, poi gli agenti in borghese della Polizia Locale arrivano a identificare l’autrice del gesto. Tutto per uno striscione che inneggiava — pacificamente, gioiosamente — all’antifascismo, valore fondativo della nostra Repubblica.
Lorenza è nipote di due partigiani decorati, Renzo e Vittorio Roiati. Esporre quello striscione non è mai voluto essere solo un omaggio formale: era un atto di fedeltà intima, familiare, civile. In una città, peraltro, Medaglia d’oro al valor militare per attività partigiana.
Nel pomeriggio da uno spontaneo e policentrico tam tam in tanti si ritrovano, nonostante il freddo, la pioggia e anche la grandine, di fronte a Palazzo Roiati in piazza Arringo. Parlamentari, consiglieri comunali, segretari di partiti e movimenti delle opposizioni. Sindacati. Ma soprattutto tanti cittadini e cittadini semplici. Si canta a pieni polmoni Bella Ciao, mentre dal terrazzino del palazzo si issa un altro striscione: “Adesso identificateci tutti”.
Sui social intanto diventa virale in tutta Italia il video dell’intervento della polizia locale e arriva la solidarietà da partiti, sindacati, giornalisti e intellettuali. Il telefono di Lorenza è bollente per le telefonate dai vari media, alcuni già lì per le prime interviste video.
E iniziano ad arrivare le prime spiegazioni, in attesa delle annunciate interrogazioni parlamentari al ministro dell’Interno Piantedosi. Parlano la questura (“osservazione e controllo del territorio, come da normale attività della volante impegnata sul campo”), il comando della polizia locale (“normale controllo amministrativo”).
Mi scrivono -fra le risate amare- colleghe giornaliste da Roma. Il senso è che di Ascoli si parla nel nazionale ormai solo per questi episodi.
Io non posso fare a meno di ripensare al messaggio di Alessandro Barbero con cui ho iniziato la giornata: “A quelli che oggi non si vogliono dire antifascisti, a loro vorrei chiedere: preferivi che gli americani e le Nazioni Unite avessero perso la guerra? Preferivi che avesse vinto Hitler? Preferivi vincessero quelli delle camere a gas? Perché, se è così, puoi anche non andare a celebrare il 25 aprile.
Dimmelo in faccia, però. Vorrei vedere chi oserebbe dirmelo in faccia. Dimmelo in faccia che preferivi che vincessero le SS e non i partigiani”.
Oggi pomeriggio, per le ore 17, davanti al panificio nuova mobilitazione: ci sarà l’europarlamentare e candidato presidente della Regione del PD, Matteo Ricci.

Si inizia a sentire chi dice: attenzione, non si vincono le elezioni gridando al pericolo fascista. La sinistra dovrebbe parlare d’altro, se vuole convincere chi oggi non ci crede più. Sono d’accordo.
Perché l’abbiamo già visto: ogni volta che si sono messi insieme governi tecnici, larghe intese, ammucchiate “contro le destre”, alla fine hanno vinto le destre. E pure più forti di prima.
Succede quando per anni si chiede alla gente di votare il meno peggio, tappandosi il naso, mentre i problemi veri — casa, scuola, salari — restano sotto al tappeto, come polvere che cresce e diventa macigno. Così, tra chi smette di votare e chi si butta a destra per disperazione, il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Lo abbiamo ricordato noi di Ithaca pochi giorni fa, in vista del 25 aprile, con l’intervento del costituzionalista Enzo Di Salvatore (QUI il resoconto): “Se uno ha fame, non è un cittadino: è un uomo che sopravvive. E la democrazia non può fondarsi sulla sopravvivenza”. Questa è l’eguaglianza sostanziale prescritta dalla nostra Costituzione esito della lotta della Resistenza. Non vago egualitarismo, ma condizione reale per l’esercizio della cittadinanza. Perché, se mancano casa, salute, istruzione, lavoro, la democrazia diventa un guscio vuoto.
Rendere l’antifascismo un rituale significa svuotarlo di senso. Ma se significa cittadinanza attiva, difesa della Costituzione, lotta contro le diseguaglianze, attenzione ai meccanismi dell’esclusione, allora è più necessario che mai.
Che le opposizioni si stringano -oggi- intorno a Lorenza è più che mai necessario, organizzino magari iniziative unitarie (se ne vedono troppo poche), chiamino in città i tanti personaggi che a livello nazionale hanno espresso solidarietà e attenzione. Uno alla volta. Ma poi si inizi a lavorare non solo nella difesa delle libertà da, ma nella difesa e nell’affermazione delle libertà per. A favore dei diritti sociali sotto attacco. Bisogna stare attenti: se l’antifascismo diventa lo scudo dietro cui si nascondono le politiche che hanno peggiorato la vita di tanti, si rischia di farlo odiare perfino a chi avrebbe tutte le ragioni per difenderlo.
Non sta tornando il fascismo in camicia nera. Ma certo, molte destre occidentali di oggi impastano il loro presente con gli ingredienti tossici del passato. Non stiamo rivivendo gli anni Trenta, ma la bussola dell’antifascismo – quella che ha fondato la nostra Repubblica – inizia a tremare. La drammatizzazione, con gli occhi rivolti al passato è da presbiti, far finta di niente sarebbe da miopi. Serve invece uno sguardo lungo e lucido: capire cause ed effetti, dentro e fuori i nostri confini, in un sistema politico che da trent’anni gira a vuoto. E partire da lì, se davvero vogliamo cambiare rotta.