Le domande che non hanno risposta

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Da oltre due anni stiamo vivendo in un clima di emergenza, condizionati da eventi che credevamo scomparsi alla metà del secolo scorso, pandemia, guerra continentale a cui aggiungerei il dedicare ogni risorsa all’oggi, senza pensare che un domani, quale che sia, ci sarà. E in quel domani i grandi problemi e i grandi cambiamenti non saranno spariti, né avranno perso di rilevanza. Transizione energetica, risorse idriche, calo demografico, crisi occupazionale, decadimento culturale. Non sembra un domani che possa lasciare tranquilli.

Transizione energetica, qualcuno ritiene che la necessità di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia segni la fine dei programmi di transizione alle energie rinnovabili, riportando in auge il carbone e le altre fonti fossili?
Nel breve possiamo solo riattivare centrali a carbone e fare accordi tattici con chi sarà disponibile, ma raggiungimento della sostenibilità ambientale e strategica dell’Europa non può essere accantonata.

Tutto questo, evidentemente, ha ricadute sul nostro territorio, già di per se in grosse difficoltà che si possono restringere in poche definizioni: crisi idrica, crisi occupazionale e crisi energetica. 

Sulla prima qualcosa potremmo fare da soli, senza che lo stato centrale detti le regole, ponendo mano alle tubature così malridotte che gli esperti stimano con una perdita di acqua del 40%. 

Sulla seconda ci sarebbe da cambiare il modo di “accogliere” gli imprenditori che scelgono di trasferire la loro attività nella nostra città (oggi un po’ meno, ma una quarantina d’anni fa arrivarono a frotte per sfamarsi alla tavola della Cassa per il Mezzogiorno).

Un tempo, misero sul piatto lo sviluppo economico e industriale del Piceno. Naturalmente piansero lacrime amare, fino a dire “fateci ottenere i soldi della Cassa e noi Vi garantiamo assunzioni”. Ci credemmo, ci cascammo, ci raggirarono. Oggi la maggior parte di queste aziende ha chiuso e ha trasferito gli stabilimenti altrove. Piangendo anche là.

Eravamo una zona tranquilla a forte occupazione agricola e, in parte, artigianale, dopo anni decidemmo di diventare industriale e, da quel momento ci scoprimmo molto simili ai lavoratori delle fabbriche milanesi. Con la differenza che loro, se venivano licenziati, tempo tre giorni e trovavano lavoro, noi, invece, una volta perso il lavoro non siamo più riusciti a trovarlo, da prima speranzosi, oggi senza neppure più quella. Tanto da cambiare il detto che la speranza sia l’ultima a morire. Oggi è la rassegnazione.

C’è una via d’uscita a tutto questo? Dovremmo imboccare con decisione la via della crescita economica, favorendola nei settori a più alto potenziale, quasi tutti collocati nel terziario, e ponendo delle regole che evitino di ridurci, come dice la gente, simili a quelli che si tirano giù i pantaloni e si pongono  ad angolo retto.

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