Tutti ne parlano, giornali, social media e conversazioni di ben 90 Paesi ultimamente sembrano sempre convergere nel fenomeno Squid Game e nel suo successo globale inaspettato. Ma quello che viene da chiederci è: si tratta davvero di un colpo di fortuna degli autori o è una serie studiata alla perfezione da chi l’ha creata?
Il mio parere verte sul fatto che l’intenzione del regista Hwang Dong-hyuk fosse sì di creare uno show che ampliasse gli orizzonti dei drama coreani a un pubblico più vasto, ma forse neanche lui si sarebbe aspettato tale rapida diffusione a macchia d’olio. La struttura narrativa è rapida, ci sono costanti colpi di scena e questo non lascia tempo allo spettatore di annoiarsi.
Effettivamente è una serie a cui non manca nulla, abbiamo un protagonista buono e non troppo scaltro, un nemico fisico (Frontman) e uno spirituale (il denaro). C’è anche la breve storia d’amore, e no, non mi sto riferendo a quello sensuale tra Han Mi-nyeo e il “bullo” Jang deok-su, ma al legame creatosi nel gioco tra le ragazze Sae-Byeok e Ji-yeong. Senza dimenticarci poi della vicenda investigativa del poliziotto infiltrato, inserita marginalmente in modo da creare delle brevi pause narrative rispetto alla storia principale. Insomma, tanti ingredienti di diverso tipo che nel loro insieme danno forma a una ricetta che piace un po’ a tutti i gusti.
L’effetto Squid Game si è fatto subito sentire, fin dai primi giorni dalla sua uscita, si è notata una crescita esponenziale di persone interessate ai k-drama e ai dorama. Non a caso compare questa settimana nella top 10 delle serie tv Netflix “Alice in Bonderland”.
Ammetto che questa serie ha appassionato anche me, è stata una boccata d’aria nella nostalgia di Black Mirror, e il fatto che mi sia piaciuta tanto mi ha spinto a cercare di sbrogliare alcuni dubbi che avevo. Principalmente mi arrovellava il pensiero di capire quale fosse il messaggio iniziale del regista e quale fosse il senso del “Gioco”. Poi mi sono ricordata del film “Il buco” di Galder Gaztelu-Urrutia, nel quale nonostante la trama sia molto diversa è facilmente ravvisabile un elemento comune con Squid Game: la critica alle disparità sociali ed economiche come conseguenze del capitalismo.
Infatti la sensazione che si ha a partire dalle prime scene è di una povertà diffusa, e non mi riferisco soltanto alle gravi condizioni di svantaggio economico del protagonista e dei restanti 455 giocatori, ma all’aria generale di miseria che si respira nella cittadina dove vive Seong Gi-hun. Andando ad informarmi meglio ho scoperto che il regista stesso, prima che Netflix decidesse di produrre la serie, viveva in condizioni economiche svantaggiate, tanto da dover vendere il computer dove stava scrivendo la sceneggiatura per poter guadagnare qualche spicciolo.
La metafora che Hwang Dong-hyuk ha voluto rappresentare è quella della società sanguinante e sanguinosa a cui porta il modello capitalista. L’aspetto che risulta più evidente del crollo simbolico di tale sistema è che avviene non in una società distopica o futurista, ma proprio come in quelle dei giorni nostri, accentuatamente indigente in Corea del Sud.
La cosa forse più spaventosa, è che queste persone hanno scelto liberamente di tornare all’isola, perché in un certo senso è l’unico luogo dove possono stare al “sicuro”. Non è tanto il premio di 45,6 miliardi di won il motivo per cui esse si trovano lì, se infatti per alcuni il denaro e il gioco costituiscono una dipendenza, per altri è un modo per fuggire dal mondo reale, che fa ancora più paura di quello costruito di Squid Game. È ovvio che c’è una contraddizione di fondo, perché il posto dove si sentono più al sicuro è lo stesso in cui vengono uccisi.
Eppure questa spiegazione che mi sono data non mi bastava, e così riflettendoci, mi sono resa conto che oltre alla critica al capitalismo vi era un sottile velo di tensione anche nei confronti di una società dittatoriale comunista. Ricordiamoci che stiamo parlando di una serie sudcoreana, il carattere che è stato assegnato al personaggio di Sae-Byeok non può essere un caso: spietato, diffidente, proprio perché il prodotto di un ambiente ostile e chiuso come la Corea del Nord. La tensione non finisce qui ma è chiaramente ravvisabile nella scena in cui Han Mi-nyeo si meraviglia del fatto che Sae-Byeok non conosca alcuni film molto famosi in Corea del Sud, un cristallino riferimento alla censura.
Ma se andiamo ad analizzare come è strutturato il gioco stesso possiamo vederne le somiglianze con il regime dittatoriale comunista. Basti pensare al fatto che è vietata ogni connessione con il mondo esterno, poi troviamo l’elemento della depersonalizzazione dell’individuo, abiti, letti, pasti uguali, e il soggetto trattato come pedina di un gioco di potere. Inoltre se in Corea del Nord l’imperatore è considerato e trattato un vero e proprio dio, nella serie il dio è rappresentato dal denaro.
Squid Game è uno show di intrattenimento facilmente comprensibile a tutti, ma se si va a scavare più a fondo piano piano notiamo che si va a creare un intreccio dove tutto prende significato. Quello che ci verrebbe da chiedere al regista adesso è: esiste una terza via di fuga? Esiste una soluzione che non paghi con la vita? Ma soprattutto, ci sarà una seconda stagione?