Documentari, da Venezia “Russians at War”: la guerra vista dal fronte russo

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Molte critiche hanno accompagnato la presentazione di questo film presso la Mostra del Cinema di Venezia. Il dissenso generale era incentrato sull’idea che l’opera proponesse un punto di vista della guerra in Ucraina troppo schierato dal lato dei russi che, a quanto si è detto, in questo film vengono eccessivamente umanizzati, portandoci a sminuire lo sforzo bellico e ideologico degli ucraini nel rimanere al di fuori dell’orbita di Putin.

Andiamo con ordine. Russians at war, come si può intuire dal nome, è un film che racconta da un punto di vista interno la vita di alcuni soldati russi sul fronte ucraino. La regista Anastasia Trofimova, a pochi mesi dall’inizio del conflitto. decide di imbracciare la telecamera e recarsi in treno là dove invece nessuno va, la terra di confine dove esplodono i missili e le vite si spezzano. Anastasia ci regala in questo modo uno sguardo privilegiato su personalità, abitudini, ansie, punti di vista di vari soldati russi mandati a morire in una terra che una volta gli era sorella.

La cosa che probabilmente più ha spaventato e confuso gli spettatori critici verso questo film, è che  l’operazione ideologica che la sorregge è di tale determinazione e precisione che i più maliziosi hanno avuto da interrogarsi sui suoi motivi.

Se si parte da questo presupposto, allora la malizia potrebbe anche essere giustificata. Ma se la colpa del film è quella di parteggiare per i russi solo perché la regista, russa, ha deciso di portare la sua telecamera sul fronte di guerra (russo, chiaramente) e ha mostrato i drammi personali di persone che soffrono e muoiono per una scelta presa da un’entità al di sopra di tutti (la Russia), allora ci sarebbe da dire che si ignora il modo basilare in cui funziona la psicologia umana.

Anche perché, e questo va specificato, il documentario della Trofimova, esemplare nel suo coraggio nonchè nella sua perizia tecnica, mostra in realtà uno scenario tutt’altro che apologetico dell’invasione dell’Ucraina: in più di una scena i soldati si chiedono i motivi della barbarie per la quale si trovano lì e, insieme a loro, la regista si interroga spesso su quali siano i germi di questa violenza fratricida che scontenta tutti, e non nutre il senso di patriottismo di nessuno. La denuncia del regime di Putin acquisisce anzi un valore maggiore perché emerge da un contesto interno, nuovo, il contesto di chi le storture di quel regime le paga sulla propria pelle ed è costretto a sostenerle per soldi, mancanza di prospettive, o per evitare che le stesse ricadano sui figli.

La galleria di personaggi che si costruisce durante la storia è ben strutturata, variegata, in un’operazione che talvolta sembra trascendere il documentario per trasformarsi nel più realistico film di guerra. Ognuno ha il suo punto di vista, la sua frustrazione, o il suo motivo di gioia, che è lì o lo aspetta a casa; e se per caso i personaggi esprimono poi favore alla causa russa, questo non stona nel contesto del film, in cui da un momento all’altro vediamo personaggi, a cui anche noi ci siamo affezionati, morire brutalmente per mano nemica. Che il nemico siano gli ucraini o meno poco importa: pensare che questa rappresentazione della realtà sia l’equivalente del fare il tifo ai russi, vuol dire banalizzare la brutale verità della guerra (tutte le guerre) e in parte anche offendere l’intelligenza degli spettatori.

Anzi, il film ha anche l’onestà intellettuale di mostrare integralmente vere scene di battaglia, di sofferenza e talvolta di morte, per rendere il messaggio ancora più chiaro. 

La guerra non ha mai senso, ed è sempre una sconfitta per tutti: soprattutto per chi le combatte.

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