Ascanio Celestini: “Ci basta saperne un po’, e l’Altro torna un essere umano”

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Sono i ‘poveri cristi’ a cui nessuno fa caso. Quelli che mi hanno sempre interessato”. Così esordisce Ascanio Celestini, scrittore, attore e regista e fra gli artisti più rappresentativi e riconosciuti del teatro di narrazione. Un’opportunità eccezionale quello di ascoltarlo dal vivo al PalaRozzi di Folignano, grazie a LibrArte Festival 2025: quando la cultura prende vita tra libri, arte, incontri e comunità grazie a un’Amministrazione comunale molto sensibile.

Per Ascanio Celestini, i poveri cristi del suo ultimo libro omonimo sono gli “ultimi” nel senso più reale, concreto del termine. Non figure astratte, ma persone precise, incontrate, ascoltate, toccate.

Era il 2012 e un amico mi disse: ‘Tu dovresti incontrare i facchini della logistica’. E, quindi, mi disse che c’era un’assemblea, dandomi appuntamento a via di Salone, che è una traversa della Tiburtina, un po’ fuori del raccordo anulare e alle sei di mattina, perché era a quell’ora che staccavano il turno. Erano eritrei, etiopi, somali, tunisini. E non capivano perché fossi lì, non sono un giornalista, sindacalista, un politico, un sociologo o un antropologo. Ero lì per ascoltare le loro storie. E ciò che colpiva era che raccontavano storie terribili in maniera allegra, con il sorriso sulle loro labbra. Il motivo era semplice: erano vivi”.
La dignità, per i poveri cristi, non sta nell’epica, ma nell’esserci, anche solo per poter “fare quelle cose inutili che facciamo tutti noi: uscire il sabato sera, fare la passeggiata, decidere di non fare niente”.

Celestini con il sindaco Matteo Terrani, l’assessore Laura Addis (foto da https://www.facebook.com/photo?fbid=638794075845268&set=pcb.638795622511780 )

Parafrasando Primo Levi si tratta dei salvati: “E io cerco queste storie. Perché le loro storie sono sempre storie meravigliose, anche se c’è un sommerso, l’inferno -a volte lungo anni- che hanno dovuto superare per fuggire, che in controluce ci fa comprendere quanto sia tragica la vicenda umana di quelli che non possono più raccontarle, le loro storie”.
E quale luogo migliore delle periferie, microcosmi grandi e vivaci più del mondo, per indagare gli esseri umani che ci ostiniamo a non voler vedere? 
Io sono nato in una città che ha un centro da cartolina. Ma non conosco nessuno che ci abiti. Roma è fatta di periferie. E le periferie non sono luoghi, sono persone”.
Celestini parla del Quadraro, il suo quartiere, con le sue vie, le panetterie, le palestre, le pasticcerie, le scuole, e tutti i suoi vicini. Luoghi apparentemente banali, dove però accade il mondo. “Ci sono posti dove la città sembra finire e invece ricomincia, diceva Pasolini. Più che periferie, sono gli spazi dove convivono cittadini stabili, più o meno benestanti, e figure fragili, lavoratori precari, mendicanti, immigrati. Si sfiorano, si incontrano, forse si riconoscono ma non si raccontano. Il confine del silenzio è invisibile ma marcato e riconoscibile. Cosa accade se invece anche loro, il Barbone, la Commessa, il Facchino, la Prostituta prendono la parola?”.
Ci vuole esercizio: “Dobbiamo provare a guardare il mondo attraverso i loro occhi. Perché se continuiamo a parlare attraverso gli occhi di Giorgia Meloni, o anche di Mattarella… continuiamo a vedere il mondo attraverso gli occhi di quelli che il mondo lo vedono da un punto di vista egemone”.

E qui Celestini racconta di Annamaria, una delle donne intervistate nella sua lunga carriera. Una contadina, che racconta della Seconda guerra mondiale, delle razzie, ma che inizia il suo racconto così: “Nel nostro cortile c’era la casa del padrone”. Non dice “il padrone aveva una casa nel nostro cortile”. Dice il contrario. Perché il punto di vista ribalta la geografia. Il padrone è “piccolo così, stava lontano”.

Tornando alla sua famiglia, a dove sia cresciuto: “Io vorrei imparare. E ho imparato da persone che, possibilmente, non sapevano neanche leggere e scrivere. Ma che sapevano raccontare. Perché la parola, prima ancora di essere scrittura, è relazione”.

Celestini cita Stefano Cucchi, non come caso giudiziario, ma come esempio del meccanismo mentale che consente all’indifferenza di diventare sistema. “Quando è morto Stefano Cucchi, l’allora ministro Giovanardi ha detto: ‘Tossico anoressico’. Così, come un’etichetta. Ma io ho saputo che Stefano era un ragazzo che stava nel mio quartiere, il Quadraro. Poteva essere quello che compra le banane al mercato. Quello che prende il caffè al bar. Uno che magari porta a spasso il cane, se ce l’ha. Uno che abita accanto a casa mia. Un essere umano”.

Qui il bersaglio di Celestini è il potere della parola di classificare. E la sua capacità di annientare, se usata per ridurre l’altro a un’etichetta. Come faccio a  “incasellare un essere umano? Lo metto in un barattolo e ci scrivo sopra: tossico anoressico. E allora basta. Lo chiami così, e non è più niente”.

Poi arriva l’affondo, crudele e lucidissimo: “Ma è proprio quello che facevano i nazisti nei campi di sterminio. Disumanizzavano. Le persone non erano persone: erano ‘pezzi’, le chiamavano così. Le bruciavano e le accatastavano. O nel ‘94, in Ruanda: i tutsi venivano chiamati scarafaggi dagli hutu. Non puoi riuscire ad ammazzare un milione di persone se le ritieni persone. Ma se le chiami scarafaggi, sì. Perché se c’hai un milione di scarafaggi in casa, li bruci”.

La disumanizzazione è il passaggio che consente lo sterminio, il respingimento, il pestaggio, l’abbandono. E basta poco per invertire il processo: “Se gli dai un nome, se ricostruisci una storia, anche solo un minimo di storia… l’altro torna ad essere un essere umano”.

Qui lo soccorre il racconto di Lampedusa nel 2011, durante la crisi migratoria (su 5/6mila abitanti dell’isola, da altrettanti fino al doppio erano diventati gli stranieri). E parla un’umanità che si comporta come tale senza istruzioni, senza protocolli, senza divise. “C’era un uomo che usciva di casa e diceva alle straniere che stavano fuori: ‘Se volete andare a fare la doccia, andate. Io sto fuori, c’è mia moglie’. Senza che nessuno gli dicesse cosa fare. Non c’era nessun San Francesco che addirittura sa abbracciare il lebbroso. Era umanità, e basta”.

Foto da: https://www.facebook.com/photo?fbid=638794069178602&set=pcb.638795622511780

E prosegue: “Se io vedo uno per strada che cade per terra, che faccio? Mi giro dall’altra parte? Possibile, l’indifferenza può essere una risposta umana. Oppure ho paura, allora chiamo qualcuno più bravo di me a intervenire. O ancora sono io quello che immediatamente agisce. Tre risposte diverse e tutte umane. Esiste la possibilità che mi avvicini e lo prenda a calci? No. E allora perché li mandiamo in Albania oggi? Questo sì che è disumano”. Ma siamo capaci di farlo, aggiunge perché c’è quella che “oggi si chiama narrazione” di un certo tipo. “A nessuno si chiede di essere santo, ma almeno freghiamocene. Un po’ d’indifferenza è meglio. È ancora umana”.
E aggiunge: “Quello è mio figlio, mio cugino, mio padre. Siamo noi. Certo, siamo noi in Egitto, in Tunisia, siamo noi che finiamo in Albania ma siamo noi. Non c’è niente di strano, non c’è niente di di controverso, siamo semplicemente noi. Certo che se invece sono i 19, sono un numero e questo è decisamente disumano”. E questo rievoca, per Celestini, momenti terribili della storia.
Ed è qui che la narrazione torna al centro: raccontare storie è ridare carne, voce, riconoscibilità.

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Ascanio Celestini non crede in una narrazione asettica, neutra. Per lui la parola è gesto corporeo, esperienza incarnata, scavo continuo nella carne viva del linguaggio e della realtà. Non racconta per spiegare ma per vedere. Non analizza: guarda. E racconta perché ha visto.

Nel racconto orale, per esempio, noi ripetiamo continuamente le stesse frasi e le stesse parole, perché è come se le parole girassero attorno alle cose nel tentativo di dirle. Ovviamente non ci riusciamo mai, perché se io dico ‘cane’, ognuno immagina il suo tipo di cane, no? A pelo lungo, corto, bianco, nero…”.

Il linguaggio è moto continuo, un’orbita: le parole ruotano attorno alle cose, le sfiorano, le evocano, ma mai le definiscono in modo definitivo. Eppure in quel movimento accade qualcosa di decisivo. “Più io ripeto la parola, più riesco ad avvicinarmi alla cosa”.

Il racconto è la pratica stessa dell’avvicinarsi. E in questa pratica, la narrazione non è mai semplice trascrizione di eventi. È rivelazione di una relazione tra la parola e il mondo. E qui Celestini tira fuori un passaggio da manuale di semiotica:

La relazione significante è che le parole dicono le cose. Cioè io dico ‘cane’ perché voglio dire che c’è un cane, cioè un referente extralinguistico. Detto così è un po’ complicato, però: significante è la parola, il referente extralinguistico è l’oggetto. Il significato è ciò che lega le parole tra di loro“.

E quindi: raccontare è compiere questa danza fra ciò che è detto e ciò che è visibile. Ma attenzione: non descrivo perché ho visto. “Io vedo, dunque dico” È questa la sua regola. Non è che dico quello che vedo, ma vedo per poter dire.
La narrazione, allora, è un modo per creare immaginazione condivisa. Non tanto per informare, ma per far vedere insieme. Un atto comunitario. “Noi seguiamo la storia perché ce la immaginiamo. E dopo, in maniera critica, riusciamo a decodificarla. Questo è quello che accade”.

Un altro passaggio importante è il racconto del modo in cui Celestini fa le sue interviste. Qui rivendica un metodo radicalmente antigerarchico:

Io faccio domande per temporeggiare. Perché spero che l’intervista sia proprio etimologicamente un incrocio di sguardi. Vorrei che le persone… a me interessa che la persona mi dica quello che veramente vuol dire”.  Non il “raccontami quello che voglio sapere”, Celestini vuole il contrario: vuole quello che non sa, quello che l’altro ha realmente dentro. “Allora è questa la cosa: quando ci incontriamo con quello che gli antropologi chiamano l’Altro, siamo veramente interessati all’Altro? O invece siamo interessati all’idea dell’Altro che c’abbiamo nel nostro cervello?”.

La narrazione come apertura vera all’Altro, vuol dire incarnare l’incontro. “I racconti vengono incarnati dalle persone che raccontano la storia. E questa incarnazione del racconto è quella che cambia il senso del dispositivo. Qui c’è un’altra delle idee forti di Celestini: il racconto non è mai lo stesso, perché ogni corpo che lo dice lo trasforma. È vivo, muta. Nella sua famiglia, lo ha visto accadere con le storie tramandate fra sua madre, sua zia, sua nonna: “Quando io registro di nuovo l’intervista a mia madre, mia madre racconta la stessa storia attribuendola a un’altra. C’è anche un margine di errore che trasferisce il racconto da un livello ad un altro”. Non è un errore. È la vita del racconto.

Celestini ha toccato poi un tema politico. Come il racconto si intrecci nella costruzione della Storia. La Storia come sistema di potere, la memoria come campo di battaglia, e il racconto come terreno di lotta. “Negli anni scorsi abbiamo pensato… c’è stato un movimento che contrapponeva la memoria alla storia. Come a dire: la memoria è quella cosa che racconta il popolo, la storia invece è un’opera delle classi dominanti”. Il nodo è cruciale.
In realtà, il fatto è che “la memoria non è mai sola. Le memorie sono tante. Allora le tante memorie sono anche in contraddizione”. Racconta un esempio tratto proprio da Radio Clandestina, dove lavora sull’eccidio nazista delle Fosse Ardeatine: “Se noi raccontiamo la storia di queste due vicende, l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944 e la rappresaglia tedesca del giorno dopo, siamo tutti d’accordo sul fatto che la prima sia una legittima azione di guerra contro gli occupanti e che quella che è stata fatta il giorno dopo è un’azione criminale”. Fin qui, la Storia.
Ma poi entra la memoria: “Però il 23 marzo 1944 lì sono stati uccisi 32 nazisti. Però è morto anche un bambino italiano, e questo bambino si chiamava Piero Zuccheretti. Aveva un fratello, Sergio. E se noi chiediamo al fratello gemello di Piero che cosa pensa dei partigiani, lui ci direbbe: ‘Per me erano terroristi’. Ed è normale”. Perché “la memoria ci racconta molto, però ci porta anche in cortocircuito. La memoria da sola non basta”.
Occorre la Storia, che fa uso delle memorie (tante) e di un metodo scientifico per ricostruire il passato.

La memoria, se lasciata sola, non regge l’urto della complessità storica, e può diventare facilmente strumento di manipolazione. Come accade, racconta, nella narrazione dominante sulle foibe, secondo Celestini. “Nel 2004 è stato istituito questo Giorno del ricordo. Sembrava una scemenza. E invece, dopo vent’anni, è diventata una cosa sulla quale i bambini alle elementari fanno i cartelloni”. Non contesta il dolore, né il crimine: contesta l’uso pubblico del dolore, l’inquadramento ideologico. “Si è trattato di circa 4mila morti, ma dei 300mila morti di fame solamente in Grecia che abbiamo fatto quando si parla?”. E poi rincara: “Questa, però, è la storia del nostro paese. Quanti film abbiamo visto sulla guerra in Italia? Tanti. Quanti film ricordate sulla Jugoslavia e sulla Grecia?”. Rispondono dal pubblico: “Mediterraneo. Sì. Bellissimo. Ma lì si parlava dei reggimenti italiani che restauravano chiese e facevano l’amore con le ragazze greche”.
E poi la data: “Quando sono morte queste persone delle foibe? In prossimità dell’8 settembre del 1943. E in prossimità della fine della guerra, cioè maggio del 1945. Che c’entra il 10 febbraio? Il 10 febbraio 1947 è il giorno nel quale si firma il trattato di pace di Parigi, ovverosia quello in cui l’Italia, insieme alla Germania e al Giappone, è tra i principali responsabili del più grande massacro del ’900. E devono non solo ripagare i danni di guerra, ma anche processare i criminali di guerra. L’Italia non pagherà i danni e non processerà nessuno”.

Foto da: https://www.facebook.com/photo/?fbid=638794375845238&set=pcb.638795622511780

E poi passa a parlare delle dichiarazioni di Ignazio La Russa: “La seconda carica dello Stato, la Presidente del Senato – che è un personaggio straordinario, veramente gigante – è riuscita a dire delle cose per cui bisognerebbe scriverci dei libri. Ha detto che fino al 1969 tra Rossi e Neri volavano solo schiaffi. E che solo nel ’69 i Rossi sono diventati violenti”.

Lo smonta con un dato: “Guido Crainz, storico, ha scritto: il 95% delle violenze politiche tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 sono messe in atto dai fascisti”. E poi fa parlare i fatti: “25 aprile 1969: scoppia una bomba nella mensa della Fiat di Milano. Estate ’69: bombe sui treni. 12 dicembre 1969: strage di piazza Fontana. Come fai ad andare in televisione a dire che nel 1969 sono passati dagli schiaffi alle botte i Rossi?”.

Il tono si fa esplicitamente militante. Celestini non chiede solo attenzione: chiede coscienza critica. Perché la posta in gioco è la democrazia stessa. “Questa è una riscrittura totale della storia. È la costruzione di una memoria tossica che ci allontana dalla verità”.

Per Celestini, la memoria non può essere una liturgia, una messa laica statale, una cerimonia obbligatoria fatta di cartelloni e patriottismi. La memoria è responsabilità, è il dovere di vedere quello che ancora non vogliamo guardare.  E, quindi, dove vogliamo andare. “La memoria non è qualcosa del passato, ma è qualcosa che si produce nel presente, per il futuro”.

Ascanio Celestini si alza, saluta, si avvicina all’area dedicata a incontrare il pubblico. si tocca la barba ancora un’ultima volta, si gratta il braccio. Con il suo tono “finto scemo, ma mi viene naturale” e gli permette di ottenere storie come nessun altro e poi di raccontare.


Sarebbe bello avere un suo spettacolo per il Festival dell’antifascismo in futuro!

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