Furia Queer in Piazza del Popolo: il primo Pride di Ascoli Piceno è storia

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foto di Andrea Vagnoni

Quando sono arrivatə ai giardini di corso Vittorio Emanuele, il sole picchiava già forte. L’asfalto sembrava volerci ricordare che questa giornata, la prima nella storia di Ascoli Piceno, sarebbe stata rovente in tutti i sensi. Era il primo Pride nella città delle cento torri. Uno di quei momenti che, nel cuore conservatore delle Marche sporche, sembravano impensabili fino a pochi anni fa. E invece c’era tanta gente lì. Finalmente lì.

E il Pride non è il “Gay Pride”, come ancora si ostinano a chiamarlo i nostalgici dell’ignoranza: non è la sfilata di una sola lettera, ma la rivolta di tuttə contro ogni forma di norma che opprime, esclude, cancella.

Come redazione di Ithaca, abbiamo seguito tutti i Piceno Pride organizzati negli ultimi anni da Liberə Tuttə: a Grottammare, San Benedetto (QUI, QUI e QUI). Ma Ascoli no, Ascoli era ancora da conquistare. E Ascoli, si sa, è la capitale. Quella che “se non si fa lì, allora non è davvero il Pride del Piceno”. Quante volte se lo saranno dettə a Liberə Tuttə. E invece, eccolo qui: storico, rumoroso, giocoso, infuocato. Inarrestabile.

Il corteo arrivato fino a piazza Roma, attraversando piazza Arringo ed esplodendo in piazza del Popolo. Una festa vera, piena di musica, balli, colori, brillantini. Si condividevano le creme solari come atti di cura reciproca, ci si passava l’acqua, c’era chi la spruzzava con le pistole giocattolo per rinfrescare tra cori, danze, abbracci. C’erano carri — pardon, “carre” come si dice al femminile queer — da cui si sprigionava musica techno, disco e queer pop, e su cui si alternavano performance, drag show, discorsi.

L’età media del corteo oscillava tra i 15 e i 35 anni, ma c’erano punte alte e basse, famiglie con figli piccoli, volti adulti che sembravano voler dire: “ci siamo anche noi, ci siamo sempre statə”. Tante bandiere arcobaleno, e tante bandiere palestinesi. Perché questo Pride, come ha gridato Liberə Tuttə, “non è solo una parata, ma un atto di alleanza radicale. Un modo di stare insieme contro ogni forma di oppressione. Vogliamo sventolare le bandiere queer e quelle palestinesi. Perché nessunə sia lasciatə indietro”.

E allora comincio da qui. “Siamo froce, lesbiche, gay, trans, bisessuali, intersessuali, asessuali, pansessuali, non binari*. Siamo tutto quello che ci pare e siamo FURIA QUEER”*, hanno detto nel discorso d’apertura. “Ci volete invisibili, nascosti tra le quattro mura delle case che non riusciamo nemmeno a pagare. Ma noi esistiamo, siamo ovunque: la vostra postina, la vostra meccanica, il vostro estetista. E siamo qui anche per chi oggi non può esserci perché ha paura”. Perché ogni Pride è anche un atto di presenza per chi non può sfilare.

E soprattutto: è una festa. Una festa vera. Libera. Felice. Quella felicità profonda e collettiva che arriva solo quando riesci finalmente a stare come sei, tra chi ti riconosce. Quando non devi più spiegare, difenderti, nasconderti. Quando balli con chi ami, sotto il sole, e nessuno ti giudica. Anzi, ti abbraccia.

Una signora, dal balcone di un palazzo, ha commentato: “Ma guarda quantə so’… e quanti giovani…”. Era incuriosita. Ma non è una vera novità, perché sotterraneamente il Piceno si muove da un po’. Ma vederlo tutto insieme — il mare di gente, i cartelloni, la musica, le urla — indubitabilmente colpisce.

Una delle parole chiave della giornata è stata “intersezionalità”. Una parola difficile, ma che vuol dire una cosa semplice: non c’è una sola forma di oppressione. Il genere, il colore della pelle, la disabilità, la povertà, lo status migratorio, l’identità di genere o l’orientamento sessuale non agiscono separatamente. Si intrecciano. E chi è oppressə su più fronti sente più forte il peso della discriminazione. Per questo il Pride deve essere, oggi più che mai, intersezionale. Perché se non libera tuttə, non è liberazione.

“Non esiste orgoglio senza antiabilismo”, hanno gridato le compagne di Nate Intere da Ancona. “Le nostre città non sono accessibili. E se non puoi entrare in un bagno, salire su un autobus, o essere capito perché i cartelli non parlano la tua lingua, allora non sei liberə. Sei esclusə”. È un monito importante, perché anche gli spazi progressisti spesso dimenticano la disabilità.

Poi è toccato al diritto all’aborto. È stata letta una testimonianza agghiacciante. Cinque ore di attesa senza spiegazioni, una porta chiusa sulla mano di una donna, negato persino un bicchiere d’acqua per deglutire la pillola abortiva. “È stato disumano”, diceva quella voce. E Liberə Tuttə ha incalzato: “Vogliamo decidere se e quando diventare genitorə. Dio, patria e famiglia? Che vita di merda!”. La piazza appoggiava. Non si può restare in silenzio.

Nel corteo c’erano tantə. C’era Lorenza Roiati de L’Assalto ai Forni, consiglieri comunali d’opposizione, sindacalisti, Sephani Maddage uno dei volti di punta della campagna referendaria sulla cittadinanza. Ma anche studentə, artistə, attivistə, genitori. C’erano i e le giovani della Rete degli Studenti Medi e Officina Universitaria. C’erano volti timidi, volti fieri, volti coperti da glitter. E c’erano le canzoni.

Un invito a scatenarsi, l’inno del Pride: “Ama chi ti ama, non amare chi ti vuol male, specialmente il caporale, e i padroni che sfruttano te”. Poi: “Siamo froce, trans e cagne, veniam dai monti e dalle campagne, arriviamo anche dal mare: sempre unite siamo a lottar”. Tuttə hanno provato a cantarla (aiutati da Qr code con tutti i testi di interventi e canzoni). Una canzone semplice, orgogliosa, piena di rabbia e gioia insieme.

Poi è toccato ad Astrid, in arte Atriskij. “Io, sotto questo cerone, sono una donna transgender. E dopo anni di abusi IO ho deciso di starmi vicino. Il Pride è la festa dell’amore per sé. Ci vogliono due palle così a dirsi: io ci sono per te”. E ancora: “Non chiedo rispetto. Lo ESIGO”. Un boato.

Àntica Pitale ha scosso la folla: “Ogni volta che ti rendi visibile, salvi una persona queer. Tu sei magia, sei santità, sei anche un po’ strega. E sei ciò che ci salverà”. Un’altra performer ha gridato: “Che tu abbia avuto paura a otto anni o due settimane fa, non importa: se oggi sei qui, stai cambiando il mondo”. Ed era vero. Passo dopo passo.

Simone Lole ha detto: “Il nostro sarà un grido d’amore. La rivoluzione parte da noi. E amare, oggi, è un atto rivoluzionario”. E ancora: “Noi sopravvivremo sempre. Voi vi estinguerete, come i dinosauri!”. Ironia, rabbia, liberazione. Era il Pride, nella sua forma più pura. Nonostante non sia grande come quello delle grandi capitali, era grande per chi ci è stato.

Il Centro Antiviolenza ha letto un elenco lungo, doloroso: i nomi delle donne uccise dal patriarcato. “Bruciate, strangolate, accoltellate. Ma ogni parola che una donna dice sulla violenza è una crepa nel patriarcato. E noi continueremo a parlare”. Commozione, rabbia per qualche secondo hanno incrinato la gioiosità.

E poi il Centro Pride, che ha ricordato che “le persone queer che si amano non possono essere famiglia, ma possono diventare casa”. Che ha ribadito che “l’orgoglio non basta. Serve rabbia. Serve giustizia sociale. Serve rivoluzione”.

Tantissime voci hanno ricordato la Palestina. La piazza ha ascoltato le parole dure, lucidissime: “La stessa logica che bombarda Gaza costruisce i muri dell’eteronormatività. Non esiste lotta queer radicale che possa ignorare la Palestina”. Al Pride si è detto chiaro: “No pride in genocide”. Perché la solidarietà non è moda, deve essere sostanza. (E tutti a dissetarsi con la Gaza Cola disponibile nel corteo!).

Il collettivo Malelingue, infine, ha chiuso dicendo: “La lotta o è transfemminista o non è”. E Non Una Di Meno ha aggiunto: “Non vogliamo più piangere lə nostrə mortə. Vogliamo ribaltare il sistema che lə uccide”.

E allora sì: questo Pride è stato una festa. Una festa piena di musica, colori e bellezza. Ma anche una piazza politica, radicale, irriducibile. Che non vuole rimanere lì. Che non vuole disperdere la propria forza. Sta a tutti noi incanalare quella energia in sempre nuove, permanenti, iniziative.

Quando, alla fine -ormai all’ora di cena- piazza Roma iniziava a svuotarsi (molto molto lentamente, c’era chi non voleva assolutamente andar via!), ho ripensato a quella frase che qualcuno aveva pronunciato, all’inizio: “Questo Pride passerà alla storia. Perché oggi, in questa provincia, abbiamo costruito storia”. Ed era vero. Facciamo che non resti solo una (bella) memoria di provincia. Qui, ad Ascoli Piceno.

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