Di seguito la quarta puntata (qui la prima, qui la seconda, qui la terza) della nostra serie sul cinema ascolano, che abbiamo presentato qui. Liberamente tratta dalla ricerca di Nicolò Piccioni, che ringraziamo.
A partire dal secondo dopoguerra le sale cinematografiche di Ascoli Piceno furono sei, un buon numero per una piccola città di provincia, e per un po’ convissero tutte insieme: oltre ai due cine – teatri Filarmonici e Ventidio Basso, c’erano l’Olimpia e il Supercinema Italia, grandi sale di forte richiamo per il pubblico, il cinema Piceno, a carattere più familiare e parrocchiale, e il Cine Roma, l’unico fuori dal centro storico.
Gabriele Morganti ricorda come:
“Negli anni ’60 c’è stato proprio un boom in tutti i sensi, in tutti i campi. Il Cine Roma era quello diciamo più basso, nel senso che faceva la proiezione del pomeriggio con due film a prezzo modico, diciamo a 200 lire. Era il più accessibile. Ventidio e Supercinema erano quelli un po’ più di classe. Olimpia e Filarmonici avevano buoni film, soltanto che il Filarmonici è piccolo, e l’Olimpia aveva sia la sala grande sotto che la balconata sopra. Il Piceno era proprio piccolo, tipo parrocchiale. Non c’aveva queste sale così eh! L’ha ristrutturato a suo tempo Paolo Ferretti. Tipo teatrino era. Tutti quanti monosala. Poi c’è stata la crisi, c’è stata la crisi del cinema, poi sono stati tolti anche i contributi, quindi il cinema ne ha risentito, anche prosa, lirica…”.
La chiusura consecutiva di tutte le sale del centro nel corso degli anni ’80 ha costituito un duro colpo per gli ascolani, che hanno visto cambiare le loro abitudini cinematografiche, così tanto consolidate, in meno di un decennio. D’altronde, data la grande scelta di sale in città, il rapporto che si era creato tra gli ascolani e il cinema all’epoca era fortemente normalizzato, e codificato.
Ancora Morganti ad esempio racconta che:
“Il manifesto prima del film era un rito, quindi si mettevano i manifesti che erano bellissimi, perché di solito erano sempre bei manifesti, venivano attaccati proprio fuori dallo stabile, in tutti i locali. Ogni locale metteva i suoi manifesti. Era importante perché tu passavi, si pubblicizzava e si sceglieva”.
Il regista Giuseppe Piccioni aggiunge:
“I manifesti erano tutti in Piazza del Popolo, la parte centrale di Piazza del Popolo sotto le logge, lato est della piazza. C’erano due quadri verso la parte rivolta verso Palazzo dei Capitani, c’era un negozio di tessuti e stoffe, c’erano altri due quadri, e dietro l’angoletto, lì in quella nicchia, c’era il quadro del cinema Roma, che era quello che dava spesso due film a 50, 100 lire”.
Anche il modo in cui venivano fruite le proiezioni era completamente diverso. Nonostante la cosa dipendesse da locale a locale, molti degli intervistati riportano come in sala spesso gli avventori si lasciavano andare a commenti e battute, e che l’orario di proiezione era più una sorta di punto di riferimento per il pubblico piuttosto che un appuntamento, dato che ognuno di fatto poteva entrare quando voleva.
Ricorda Francesco Cavezzi:
“Si partecipava al film! Se era un film divertente ci stavano quelle risate sguaiate, se era un film drammatico ci stava pure chi piangeva … poi ci stava quello che vendeva le caramelle, un ragazzo con una cassettina, e come c’era la fine del primo tempo si accendevano le luci, e allora lui iniziava: ‘Caramelle! Bruscolini!’ C’erano caramelle, bruscolini, lupini, più che altro le caramelle. Andava in giro questa cassettina … poi si fumava liberamente“.
Giuseppe Piccioni ricorda che:
“La fauna serale, gli spettatori che andavano dopo cena al cinema erano un po’ diversi, un po’ più adulti, un po’ più i solitari … e c’erano i commentatori folli, ci trovavi quello che faceva la battutaccia, era un po’ più libera la cosa … a me mi colpirono alcuni personaggi ascolani, con i loro nomignoli, con i loro soprannomi, che facevano ste battute: ‘Avà chessa oh! Avà quiss!’. Non esisteva un decalogo sul modo di guardare un film, spesso capitava che qualcuno parlasse o commentasse ad alta voce e allora dovevi zittirlo … c’era disordine, anche, però era un disordine vitale”.
Al contrario nei cinema più eleganti, come l’Olimpia o il Ventidio Basso si cercava di limitare questo genere di comportamenti, mantenendo un certo ordine nel momento della proiezione. A tal proposito il professore Gino Scatasta racconta un aneddoto esemplare:
“Io vidi ‘Brancaleone alle crociate’ (1970; M. Monicelli), e ti ricordi c’era la canzoncina ‘Branca Branca Branca, Leon Leon Leon’? Allora io, facevo le medie, mi ricordo che noi cantavamo. Ci cacciarono immediatamente! Ci fecero mettere in galleria … e poi ci veniva a controllare che non facessimo casino. Evidentemente c’era controllo in sala”.
Di nuovo Piccioni:
“Le proiezioni erano abbastanza stressanti. Il proiezionista doveva stare sempre vicino al proiettore. Poteva accadere di tutto e se succedeva qualcosa gli spettatori cominciavano a gridare per richiamare l’attenzione del proiezionista che si era distratto. Oppure “Voce! Volume!” quando il volume era troppo basso … qualcuno perdeva la pazienza e saliva di sopra in cabina, a protestare…”.
Un rapporto quasi di “collaborazione” tra film e spettatori, oggi impossibile per via dei moderni metodi di proiezione basati sugli hard disk.
Sugli orari, Paolo Cappelli racconta:
“Tu potevi iniziare anche a fine del film. C’era solo scritta, mi pare, l’inizio della programmazione, quando apriva il cinema, poi basta … e spesso quando si entrava: ‘Da quanto tempo è iniziato?’ ‘Quanto ci manca?’ era la domanda ricorrente per capire: se manca poco a finire mi aspetto … un’altra domanda ricorrente, tra sé e sé, con il compagno, con il papà, era ‘Ma sta scena me sa che la seme vista, seme arrevate qua?’ Allora era ora di andare via. […] Se c’era il film che ti piaceva, e magari non capivi qualche battuta, qualcosa, stavi lì; nessuno ti diceva niente e te lo rivedevi”.
Ernesta Spinucci, ex cassiera del teatro Ventidio Basso, sulla distribuzione dei film racconta:
“Prima il cinema era il punto focale per la cultura, ci si andava moltissimo. Da premettere che negli anni ’70 l’attività del cinema era a 360°, dal western, al film sentimentale, al film drammatico, di tutti i tipi. Penso sia stato il periodo più bello in assoluto per il cinema […] La cosa bella era che non c’era competizione cattiva tra i cinema; ci si dava dei segnali, dei segnali che uno captava … se faceva western in un cinema l’altro cinema faceva un altro genere, non c’era guerra, c’era molto, molto rispetto. Non ci si accordava, era sottinteso. Chi gestiva, c’era un’agenzia in Ancona, l’agenzia madre che, ad esempio, se a te cinema dava un western, non dava un western a un altro cinema, anche perché andava a discapito dell’agenzia”.
E sulla censura, Gino Scatasta:
“C’era questo famoso questore […] pretore dell’Aquila, il quale proprio, molto moralista, lui appena il film usciva … doveva esserci un tempo di uscita nelle sale, per cui di solito usciva venerdì, il sabato si faceva, e la domenica veniva sequestrato … se erano film appunto di Pasolini … ma anche altri…”.
La relazione con la cinematografia era vissuta sempre con grande coinvolgimento, se si pensa che l’uscita in sala di alcuni film suscitò violente reazioni: ad esempio Jesus Christ Superstar (1973; N. Jewison) scatenò la protesta delle associazioni cattoliche della città; mentre Berretti verdi (1968; J. Wayne) fece scendere in piazza i militanti della sinistra; o ancora la presentazione in anteprima del film La cicala (1980) di Alberto Lattuada, con annesso dibattito con il regista al Teatro Ventidio Basso, scatenò una forte discussione tra gli spettatori a causa della natura scandalosa della pellicola.