Irriverente, ironica e mai banale: così è l’arte raccontata da @unacamillacontemporanea

Ascolana, classe 1997 e già molto nota nel mondo della divulgazione digitale dell'arte contemporanea. Abbiamo parlato a lungo di arte, comunicazione, lavoro e ovviamente della situazione della nostra città

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L’arte ti aiuta a riflettere sulla vita. Si tratta di un dialogo fra noi e l’oggetto, che diventa l’occasione per concentrarsi su qualcosa a cui non avevamo pensato. L’arte costringe a non rimanere passivi, a compiere un profondo ascolto di sé stessi e del mondo. Anche nel caso delle opere più tradizionali o lontane nel tempo, l’arte ti porta a riflettere sui problemi del mondo”. Camilla Bruni, classe 1997 e originaria di Ascoli Piceno, è iscritta a Bologna presso il corso di laurea magistrale in Arti Visive. Tutti la conoscono come @unacamillacontemporanea, il nickname scelto sui social network per il suo progetto di divulgazione digitale dell’arte contemporanea: potete trovarla principalmente su Instagram (6.635 follower) e TikTok (21.800 follower).

Senti Camilla, prima di iniziare, una cosa importante: una volta per tutte spiegaci come superare il pregiudizio diffuso che si ha sull’arte contemporanea.

“Quando uno vede una banana attaccata con lo scotch al muro, può rimanere spiazzato: occorre fargli capire come ci si è arrivati.
Ti direi allora: ‘Prendi questo libro e dagli un’occhiata, poi dimmi se cambi idea’. Il libro è quello di Francesco Bonami, noto critico d’arte, edito da Mondadori. La sua tesi è che tutti, almeno una volta nella vita davanti a un’opera d’arte contemporanea, pensano: “Questo lo potevo fare anch’io!”, da cui il titolo del saggio stesso.
In generale consiglio a tutti di entrare in un museo di arte contemporanea, mettersi di fronte a un’opera e, invece di star lì a dire: ‘Ma non la capisco!’, sforzarsi di dare una propria interpretazione personale. Dire arte contemporanea vuol dire perdita di ogni tipo di riferimento (estetico, tecnico-manuale, ecc.). Da Duchamp in poi quello che conta è il concetto, il messaggio: la parte estetica passa in secondo piano.
Alla fine, si può confrontare la propria interpretazione personale con ciò che si trova sui libri, ‘ufficialmente’”.

Mi viene una brevissima domanda collegata a quanto mi stai dicendo: il figurativo ha ancora senso, quindi, oggi?

Non c’è una risposta univoca, può avere senso ma, sinceramente, non se diventa la semplice dimostrazione di quanto uno è bravo tecnicamente. Se dietro c’è un messaggio banale e scontato, l’artista può essere il più bravo di tutti nella tecnica, ma mi sta solo proponendo una supercazzola. Oggi l’arte, e quindi il figurativo, deve proporre un messaggio forte, attuale: deve schierarsi”.

In questo contesto, tu come ti inserisci?

“L’arte contemporanea viene vista come qualcosa di elitario, che deve essere comunicato con dei paroloni: per me non è così e cerco di mantenermi lontana da quegli ambienti quasi tossici che la continuano a pensare così. Sicuramente di base è più difficile e complessa da spiegare, ma poi si è andati troppo oltre. In questo il contributo dei social e degli art sharer, che è esploso negli ultimi anni, sta contribuendo a cambiare le cose; ancora però la scuola – che potrebbe fare molto – fatica: i programmi sono troppo vasti e mal concepiti. Così come le istituzioni culturali sono spesso ancorate a una museografia (didascalie, pannelli, dépliant, ecc.) tradizionale. D’altronde se devo fare una mostra, con l’arte moderna mi viene più facile: ha un linguaggio che si ‘vende’ meglio.
Il mio obiettivo è dunque raggiungere quelle persone che non hanno avuto finora l’occasione di approfondire l’arte contemporanea, ignorando magari di avere una passione semplicemente perché non la conoscono e non hanno ricevuto i giusti input. Poi ovviamente mi rivolgo anche a chi già si è appassionato per altre vie, ma la cosa più bella è quando mi contattano per dirmi: ‘Grazie a te ho scoperto l’arte contemporanea’. Io propongo pillole, curiosità, spinte gentili per mostrarne i molteplici aspetti interessanti, che magari nessuno ha mai nemmeno nominato.

Come sei arrivata alla comunicazione social?

Fino a quando non è nata @unacamillacontemporanea, il mio approccio ai social era quasi totalmente passivo. Nel mio profilo personale di Instagram potevo al massimo pubblicare qualche foto di paesaggi, realizzate da me (la fotografia mi appassiona). Eppure i social non sono solo moda e lifestyle così, insieme al mio amico Riccardo – che si era buttato poco prima – siamo diventati creatori di contenuti. Lui di arte medievale, io di arte contemporanea. Non sono partita con grandi competenze, se non la mia dote d’osservatrice: per il resto sono un’autodidatta.
Ho iniziato a prendere foto da internet, curando la didascalia: il linguaggio doveva essere accattivante e mai noioso. In effetti avevo notato che, fra i profili che si occupavano di arte, ben pochi cercavano di semplificare e rendere divertente il contenuto. A seconda di quanto mi viene in mente, parlo di simboli, movimenti, correnti: tutto nell’ambito dell’arte contemporanea. Ah, dimenticavo che il nome me l’ha suggerito lo stesso Riccardo: basta con tutti quei nomi inglesi, mentre questo (anche se all’inizio neanche mi piaceva troppo) rispecchiava di più la mia personalità”.

Qual è il tuo format?

“Fin dall’inizio mi ero prefissata di pubblicare un contenuto al giorno, al massimo ogni due. Ho così allenato l’algoritmo: ‘Io ci sono!’ e così ho iniziato a comparire nei consigliati e le persone hanno iniziato a seguirmi e interagire (spesso rispondo anche a input che mi sono arrivati dal mio pubblico). Inizialmente producevo post (e nemmeno comparivo nella foto), poi via via i social – complice anche la spinta di TikTok – si sono spostati verso il video e così ho fatto io. Dietro ciò che pubblico c’è tutta la mia passione per l’arte e quindi le continue letture, le ricerche, lo studio. Il mio stile non è evoluto granché nel tempo: sempre irriverente, ironico e mai manualistico. Questo carattere si è forse accentuato con TikTok, a cui sono arrivata praticamente dopo un mese che la mia pagina Instagram era nata. All’epoca c’erano molti meno profili di ora e ho iniziato a osservare quello che si faceva. C’erano un paio di persone che parlavano di arte, penso alla mia amica Giusy Vena con Less is art. Poi le mie fonti d’ispirazione sono stati altri creator, che parlavano di cinema, filosofia, storia, attualità: comunque eravamo in pochi a parlare di cultura. Poi col tempo sono aumentati, anche perché Instagram ha introdotto e iniziato a premiare molto i Reel: tutto il resto è passato in secondo piano. Video di un minuto, con un certo linguaggio e una certa velocità: propongo gli stessi su Instagram e TikTok, anche se all’inizio pensavo di dover osare di meno su Instagram, vista la diversità di pubblico (estremamente più giovane quello di TikTok); poi ho capito che non era affatto necessario, anzi”.

Si è tanto parlato di influencer e arte, qual è la tua idea?

“Abbiamo detto, l’arte contemporanea andrebbe comunicata diversamente da come si è sempre fatto. E le istituzioni culturali dovrebbero contribuire a questo cambiamento. Quindi viva gli influencer impiegati nelle campagne di comunicazione dei grandi musei, con un però. Se è vero che per raggiungere il grande pubblico occorre chiamare l’influencer non specializzato nel settore artistico, si devono però al contempo evitare gli strafalcioni, che rischiano di comunicare un messaggio sbagliato. Dovrebbero esserci delle figure esperte ad affiancarli e spesso non succede…”.

Noi di Ithaca per primi sollevammo una questione alcuni mesi fa, di cui molto si è parlato ad Ascoli (trovate l’articolo QUI). Tu cosa ne pensi dell’ingaggio di Melissa Massetti?

“Il nostro esempio locale calza a pennello con quanto dicevo. Se proprio si pensa sia necessaria un’influencer generalista, e ci può stare, la si affianchi a professionisti della cultura! Magari sarebbe bello fare un’analisi di mercato prima di partire, vedere che figure locali ci sono a disposizione e quali sono gli obiettivi del progetto. Io invece vedo molta superficialità, a voler essere buoni”.

E di esempi invece a livello nazionale?

“Guarda, recentissimo. In occasione della mostra ‘Donatello, il Rinascimento’ (19 marzo – 31 luglio 2022) e del lancio del nuovo profilo TikTok, Palazzo Strozzi a Firenze ha deciso di coinvolgere tre star della piattaforma, permettendo loro di usare il proprio specifico linguaggio: l’attrice comica Maryna doveva portare il suo punto di vista ironico; Giovanni Arena condurre la sua community di viaggiatori tra le sale della mostra; infine, il fiorentino WikiPedro esportare la sua ‘toscanità’ assieme a quella di Donatello in tutta Italia. Il problema c’è stato con Maryna, che ha costruito una scena fra una guida con la tipica prosopopea da saccente e la visitatrice ignorante, sguaiata e pure annoiata: insomma non proprio un invito alla visita; invece che avvicinare le persone le allontanava.
E questi sono i grandi musei, quelli che si possono permettere i grandi influencer. Per il resto c’è il vuoto, ci si trincera dietro la mancanza di fondi, ma in realtà gli art sharer hanno pubblici più di nicchia, quindi alla portata anche del piccolo e medio. E invece che mi arrivano? Inviti a mostre, presentazioni, inaugurazioni. E se chiedo almeno un rimborso spese…”.

La famosissima campagna per sensibilizzare sul pagamento dei lavori creativi

Ma tu dopo la laurea vorresti lanciarti completamente in questo settore?

“Certamente dal mio punto di vista sarebbe il massimo conciliare comunicazione digitale e arte. Magari lavorare come content creator per attività culturali (pur non disdegnando le altre, per carità). Al momento ho iniziato le prime collaborazioni retribuite legate a @unacamillacontemporanea. A mio sfavore gioca il fatto che il mio è un tema di nicchia, però ci sono altri che ci lavorano tranquillamente, quindi col tempo vedremo. C’è poi la questione insegnamento, che non può che piacermi dato che ciò che mi muove è la divulgazione. Meno vicino a me il settore della curatela, anche se non lo escludo. Al momento, comunque, mi sto concentrando sulla conclusione del mio percorso universitario”.

Di che ti occuperai?

“Ovviamente la mia tesi è in arte contemporanea e partirò da Bologna e un progetto di arte pubblica ’Container’ e una serie confronti con altre esperienze: d’altronde da sempre mi interessa l’arte fuori dal museo. Il concetto di arte pubblica, che peraltro non si usa nemmeno più molto, include una variegata gamma di manifestazioni artistiche, attenzione a non appiattirlo solo sulla street art”.

Visto che l’hai nominata che mi dici proprio della street art?

Adoro la street art, che è la modalità antielitaria per eccellenza: la trovi in strada e sei costretto a guardarla; è diretta, non puoi evitarla! E mi piace che mandi un po’ affanculo il sistema canonico dell’arte musealizzata (tanto non scrivi tutto, no?). Anche se negli ultimi anni si sta speculando anche su questo. Guardiamo Banksy, in cui tutto è ormai studiato a tavolino per guadagnarci (su Ithaca ne abbiamo parlato QUI).
Il mercato dell’arte è un vero disastro… Va benissimo la giusta remunerazione, ma la situazione sta sfuggendo di mano. Fra case d’aste, problemi con il riciclaggio di denaro sporco: nell’arte l’economico sta prendendo il sopravvento. E poi a completare la perdita del lato emotivo dell’arte, ci sono gli Nft, certificati di autenticità e di proprietà associati a un certo bene digitale: con questo sistema si riescono a creare unicità o scarsità anche per gli oggetti puramente digitali, rendendoli collezionabili
”.

Delle opere molto belle di street art molto belle sono anche ad Ascoli, peraltro, no?

“Sì, le opere di street artist di fama internazionale ci sono, ma ridotte nel degrado più assoluto: erbacce, muri scrostati, usura del tempo, incuria… Ma poi turisti e ascolani sanno della loro presenza? Ci sono tour guidati specializzati? Sì è messo in rete tutto per farne un museo all’aperto? Quelle opere hanno contribuito a un progetto di rigenerazione delle zone in cui sono? Tutte domande retoriche, ovviamente. La situazione culturale della nostra città la vedo davvero male. Ci eravamo davvero illusi di poter diventare Capitale italiana della cultura (ne abbiamo parlato tante volte su Ithaca, l’ultima QUI)? Mi sembra tutto troppo un’apparenza, c’è molta superficialità. C’è una città che può offrire tantissimo e, invece, quando torno da Bologna cosa posso fare? A parte la stagione teatrale del Ventidio Basso e due o tre concerti estivi di nomi noti (ne abbiamo parlato QUI), a quale attività culturale posso rivolgermi? Ascoli è il deserto. La mostra di punta è quella di Sgarbi (potete approfondire QUI) e poi sta lì da non so quanti mesi… Mancano proprio le basi fondamentali: ma le splendide chiese di Ascoli quando sono aperte e quante? Perché non sappiamo nulla dei talenti presenti in città nelle varie arti, perché non vengono valorizzati? Bisogna mettere in rete tutto questo e magari puntare sui giovani: perché all’Annunziata (uno spazio straordinario, ma abbandonato) non si pensa a un bel festival di artisti emergenti?

Per concludere, ripartiamo dall’inizio: come sei arrivata all’arte?

Vengo da un liceo linguistico, che era il consiglio che i miei insegnanti delle medie mi avevano dato. In realtà, però, ho sempre avuto fin da piccola una grande passione per l’arte, a livello pratico: disegnavo e dipingevo continuamente e le maestre – racconta mia madre – appendevano soddisfatte i miei lavori. Questo interesse me l’ha probabilmente trasmesso mio padre, che ha frequentato l’Istituto d’arte (anche se poi professionalmente ha fatto altro). Comunque sono sempre stato convinta che avrei fatto l’artista e invece… Al liceo pensavo di continuare a disegnare ma poi fra la scuola e gli altri impegni non ce l’ho fatta. Alle medie avevo scelto una sezione musicale e quindi ho iniziato a suonare il pianoforte, il pomeriggio andavo in una scuola privata, la Music Academy Ascoli, dove poi ho seguito una formazione diplomante in musica moderna. Al termine del liceo si è posta la questione del cosa fare dopo: continuare con le lingue o con la musica, andando al conservatorio? Sono sempre stata molto brava a scuola e così ho deciso di proseguire con gli studi all’università, pensando – anche stavolta – che magari sarei riuscita a conciliarla con l’impegno in conservatorio, cosa che ovviamente non è andata. Però, invece di continuare con le lingue, mi sono spostata sull’arte: avevo paura di annoiarmi troppo altrimenti, per quello che mi serviva avevo un buon livello di inglese. In triennale mi sono detta di rimanere vicina e mi sono iscritta a Macerata a questo corso in Beni culturali e turismo, un’interclasse unica in Italia. Ho recuperato così il mio interesse per l’arte, anche se stavolta a livello teorico. Ero partita come modernista, poi sono passata all’arte contemporanea perché la relatrice della mia tesi è andata in maternità: in ogni caso l’arte mi piace tutta, tranne forse un po’ l’archeologia e l’arte medievale. Riprendendo l’arte contemporanea per la mia tesi ho capito che avrei continuato proprio specializzandomi in quel periodo. Mi sono laureata in corso e poi ho scelto di prendermi un anno sabbatico. Avevo preso male l’ultimo periodo, ero sovraccarica di impegni (tornavo a casa per lavorare nei Musei civici di Ascoli il fine settimana). Pensavo di trovarmi qualche lavoretto ma… è arrivata la pandemia e così mi sono data alla lettura di centinaia di libri e mi sono lanciata nella mia avventura social per salvarmi dalla noia”.

Consigliaci un artista emergente da tenere d’occhio: “Andate sul profilo @makeitalianartgreatagain e guardate i pungenti meme sull’arte contemporanea di Giulio Alvigini”.

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